Ritratti & Interviste

Ritratti #5: Nicolas Winding Refn

Interrompiamo la solita trafila di occhi a mandorla, un classico di Five Obstructions, per questa sezione dei ritratti di registi. Interrompiamo, inaspettatamente direte voi, con estremo piacere questa tradizione. Perché Five Obstructions torna su lidi ben più vicini a quella che si può chiamare “aria di casa”. E’ la Danimarca infatti a farla da padrone quest’oggi sulle pagine del più dogmatico blog di cinema che potete recuperare sul Web. Quest’oggi diamo un’occhiata a un giovane interessante, classe ’70, made in Copenaghen. Il suo nome è Nicolas Winding Refn.

Il ragazzo ha personalità, senza dubbio, e la sua carriera di ben 14 anni tutto lo fa sembrare fuorché un novellino. I suoi inizi per quanto interessanti sono sempre stati macchiati da un po’ di facilità giovanile: temi e stilemi classici dello sbarbatello che una volta messo dietro la macchina da presa non ha alcuna remora nel tentare semplicemente di realizzare i suoi sogni cinematografici. Eppure molto c’è di interessante in queste produzioni, che riescono ad uscire tutt’altro che bambinesche. Anzi. D’altronde vedremo come il ragazzo ha per ora in cantiere sette film e il sottoscritto ne ha visti ben sei. Se non è una totale devozione e fiducia questa da parte mia, non so come chiamarla. E ben si sa che quando da regista sei approvato da Five Obstructions beh… Significa che ce l’hai fatta.

Tutto comincia nel 1996, con il primo capitolo della trilogia Pusher. Refn già allora (ventiseienne!) fu capace di mettere in mostra un’abilità fuori dal comune come occhi per la ripresa di alcune scene. In particolare qualche sequenza di inseguimenti risulta ancora oggi particolarmente interessante. Pesa sul film invece una trama che non aggiunge moltissimo al tema della vita sulla strada. Il nostro pusher è un braccato nei guai che cerca di trovare una via d’uscita a una situazione del tutto disperata. Fin da subito è chiaro che quindi Refn è più un regista di come che non di cosa: non molto di nuovo viene detto, ma estremamente bene.

Anche nel secondo suo film, Bleeder, Refn è alle prese con una storia che non si presta a particolari tocchi originali. Risulta chiaro un secondo punto problematico del suo esordio: oltre a non avere script particolarmente entusiasmanti, la recitazione del suo feticcio protagonista, Kim Bodnia, non è a grossi livelli d’eccellenza. Sparisce del tutto in confronto a un altro sempre presente nelle sue pellicole, quel Mads Mikkelsen che si affermerà poi come semplicemente uno dei più grandi talenti (se non il) della recitazione europea.

Tale talento non poteva rimanere infatti nascosto a degli occhi così in grado di trasformare tutto in magia come quelli del regista danese. Dopo una lunga pausa, interrotta anche dall’unico film di Refn che non ho avuto il piacere di vedere, si passa dal 1999 al 2004 con Pusher II, secondo capitolo. Che mette in mostra come fu proprio il primo episodio ad essere il meno ispirato della serie. Più che la disperazione per una situazione senza uscita, il personaggio magistralmente interpretato da Mikkelsen vive nella costante disperazione quotidiana di essere un nessuno in mezzo ai leoni. Quasi una rivisitazione donabbondiana della prima pellicola (alludo al proverbiale vaso di coccio), questa volta riuscita semplicemente a punteggio pieno.

A stretto giro arriva quindi anche Pusher III, per chiudere in bellezza. Nonostante una evidente quanto immancabile vena pulp, Refn non ha mai spinto, fino ad adesso, sul pedale del sanguinolento nei suoi film. Con questo terzo capitolo, dall’esplicativo sottotitolo I’m the angel of death, il regista danese mette in campo una ferocia che mai lo aveva visto protagonista. Le tinte rosso sangue raggiungono vette di uno splatter quasi pacatio e controllato, ancora più mostruoso quindi nella sua messa in scena da macelleria pura.

Bronson arriva nel 2008 dopo tre anni di pausa e una piccola parentesi televisiva. Stilisticamente il suo film più ricercato, nella composizione di immagini e suoni decisamente evocativi. La storia raccontata è quella del carcerato più pericoloso d’Inghilterra dallo pseudonimo appunto di Charles Bronson: un tipino che ha attualmente passato 30 anni dei suoi 58 di vita in isolamento in prigione. E questa è una storia che non aspettava altro che Refn per essere raccontata: sporca, violenta, pazza, ma con una certa dose di umorismo. Hardy è perfetto in una parte che farebbe la gioia di ogni attore, tanto quanto il Joker di Heath Ledger, che il buon Tom avrebbe probabilmente saputo interpretare con pari intensità.

Buon ultimo, arriva Valhalla rising, con il ritorno di Mikkelsen come protagonista. Non molto diverso a livello di trama da un Pathfinder qualsiasi, la storia del primo sbarco vichingo in terra americana, Valhalla rising rappresenta il perfetto esempio di come tutto nelle mani di uno come Refn possa diventare oro. Se si parte da un’idea così sfruttata per certo cinema di serie B e si ottiene un risultato del genere, dignitosissima presentazione al cinema di Venezia, non si può che levare una standing ovation per l’uomo dietro la macchina da presta. Un film ancora più sporco e violento di Bronson, con meno spazio per ironia e parole, dato il mutismo del suo protagonista. Pare un Kim Ki Duk che incontra Ruggero Deodato (passando per Aguirre?).

Il futuro di Refn è quello di molti registi talentuosi capaci di girare qualsiasi cosa con grande stile e personalità. La chiamata ad Hollywood è parsa doverosa e si è materializzata in Drive, dove, tra gli altri, il nostro direttore dirige i dirigibili della Christina Hendricks. Tuttavia pare che Refn sia già al lavoro per tornare all’opera su un progetto più intimamente suo, tal Only God Forgives del quale, tuttavia, al momento non si hanno tantissime notizie.

Saluti,

Michele

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