Film

Gli amici del bar Margherita

Premessa: L’articolo di oggi doveva parlare del film di Soderbergh su Che Guevara. Le scellerate politiche di marketing secondo cui è inaccettabile tenere tre ore e mezza una persona al cinema quando la si può comodamente far pagare il doppio per un unico prodotto lo hanno reso un progetto monco impossibile da giudicare solo dalla sua prima parte. Rinuncio quindi a dare un giudizio su un panino che mi giurano essere magnifico, ma di cui mi vendono prima la carne e la maionese per poi rivendermi a prezzo pieno due settimane dopo il pane, l’insalata e la cipolla. Per cui, volente o nolente (ma soprattutto nolente), mi dedico all’ultimo film di Pupi Avati.

L’ultima opera del gerontissimo (non tanto anagraficamente quanto artisticamente) regista italiano è incentrata su un luogo: il bar Margherita. Questo bar è abitato dalla solita combriccola di amici che vivono le loro normali avventure, scherzi ed esperienze con il solo filo conduttore del comune luogo di ritrovo. Il film si dipana quindi in maniera episodica: c’è il torneo di biliardo, il matrimonio di uno degli amici, le scommesse, i compleanni…

Dalle poche righe della sinossi (che sinossi non è, in un voluto rifiuto) si capisce immediatamente che le intenzioni di Pupi Avati sono quelle di creare un gruppo di personaggi attorno a un luogo di culto, in maniera assai simile a quello che è Bar Sport per il mondo della letteratura italiana. Lo stanco Avati però non ha nè la sagace e grassa vena comica del Benni prima maniera e scivola in quello che potrebbe essere definito senza fatica “un Amarcord girato senza il talento di Fellini”. Perchè questo si riduce ad essere: una sequenza di scenette girate senza una visione artistica, con tutta la concentrazione volta alla ricostruzione storica e a una vuota accademia nelle inquadrature. Non c’è atmosfera sognante, non c’è pathos verso i personaggi.

Ecco, si arriva al punto più critico del film: i personaggi. Questo è esplicitamente un film di personaggi, come lo è Amarcord, come lo è Bar Sport per la letteratura cartacea, come mille altri esempi (un vero e proprio genere). E cade nel più colossale, madornale errore che si possa fare in un film del genere: creare dei personaggi inutili. Come si può pensare di inserire in un film del genere dei personaggi inutili? Maschere appena abbozzate da una frase fuori campo che svolgono una singola azione nel film e rimangono eternamente sullo sfondo, mai protagonisti di una scena. E’ assolutamente inconcepibile, straniante nel senso negativo del termine e dà la sensazione di una sceneggiatura scritta con i piedi.

Tenendo conto che il problema non è nè la durata (il film dura i canonici 90 minuti) nè nel fatto che i veri protagonisti se isolati renderebbero la scena spoglia: Abatantuono e Marcorè reggono bene da soli il film, Zizzi è funzionale nel suo ruolo di filo conduttore, Lo Cascio è volutamente ben oltre il sopra le righe, ma non può non strappare un sorriso.

Con queste critiche non voglio comunque dare un’impressione sbagliata del film. Avati sa ancora dirigere con garbo e leggerezza un’ora e mezza piacevole, soprattutto per chi appunto riesce ad entrare nello spirito dei ricordi (che, si sa, addolciscono sempre anche quello che dolce non era affatto quando lo si è vissuto). Non è insomma un tracollo indifendibile come l’ultimo Il papà di Giovanna. Alcune idee divertenti ci sono, si sorride di gusto e meno raramente di quanto non possa sembrare. Ma anche in questo caso si evidenzia l’ultimo dei difetti che voglio trattare in questa sede.

Prendiamo come esempio cardine la scena del compleanno per capire anche tutte le altre del film: l’incipit è sicuramente accattivante e già dalla costruzione della situazione si capisce la potenza umoristica. Potenza che viene espressa molto bene. Ma quando arriva il momento di chiudere la scena e passare alla prossima avviene l’incredibile: Avati non lo fa. E aggiunge un’ulteriore spezzone alla scena, che cancella la risata appena fatta. Va bene: ma adesso chiudi. E invece no: Avati aggiunge ancora. E la situazione diventa grottesca (anche in questo caso nel suo senso negativo). E ancora e ancora, finchè lo spettatore non può altro che sbottare “E basta!”.

Questo è gli amici del bar Margherita: un tizio che vuole essere simpatico per forza, simpatico lo è, ma non sa quando smetterla prima di rovinare tutto. Discutibile anche il finale, con una sparata piuttosto generalista sulla visione del presente attraverso i personaggi del passato: è vero che quello che siamo oggi non è altro l’evoluzione di quello che eravamo ieri (per quanto ne possano dire i detrattori del presente, vedi le considerazioni sul passato reso dolce dai ricordi), ma allora che senso ha chiamarsi fuori da questo passato (come il protagonista fa)?

In ultima battuta Avati è ormai colto dal morbo di Woody Allen: un vecchio stanco che continua a produrre film con lo stampino ma ormai privi della forza vitale che alimentava la sua grandezza passata. Avati non è ancora allo stadio irrecuperabile e terminale come Olmi (altro illustre affetto da tale morbo, vedere per credere il suo terribile corto nel progetto perfiducia.com), ma di certo la prognosi non è buona.

2 / 5

Saluti,

Michele

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2 Responses to “Gli amici del bar Margherita”

  1. On 17/04/2009 at 19:48 maghetta responded with... #

    “…Ci vediamooo da mariooo prima o poiii”
    anzi meglio Mai! :D

  2. On 19/05/2009 at 11:28 cravoub responded with... #

    ehh… love it ))

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