Film

Che

Che L’argentino e Guerriglia intendono raccontare la vita del comandante Ernesto “Che” Guevara De La Serna dal suo primo incontro con Fidel Castro a Cuba fino alla morte in Bolivia. All’interno di questo lasso temporale ci sono i suoi successi di capitano, il suo discorso alle Nazioni Unite, i suoi fallimenti di comandante. Si parte dalla trionfale marcia verso La Havana alla lenta caduta nella foresta boliviana.

Obiettivo dichiarato di Soderbegh con questo progetto è quello di evadere dall’iconografia classica di Che Guevara, da quell’aura di simbolo e mito che volente o nolente si è guadagnato in vita e in morte. L’intento è palese fin dalla locandina “Everyone knows the icon. Few know the man”. Il tentativo è nobile e sicuramente giusto: non c’è assolutamente bisogno di un’ennesima divinizzazione di un generale come tanti che ha avuto la fortuna di avere un ottimo reparto di marketing. Ma è un tentativo riuscito?

Assolutamente no. Ernesto Guevara ha sempre tentato in vita di essere il simbolo dell’antieroismo, ma specialmente nella prima parte è sempre al centro della scena, è il comandante che trascina, è l’Eroe del carisma e della fratellanza. Meglio riuscita la seconda, in cui c’è un’inevitabile cambio di toni e qualche concessione al Guevara padre (insufficiente però! Non bastano cinque minuti con un figlio sulle ginocchia per dire “you know the man”). E il gioco di tenere Del Toro lontano dalle riprese principali riesce, dove precedentemente falliva. Ma per il resto la filosofia new age della prima parte è esattamente l’equivalente di un ritratto del Che sventolato nella curva di uno stadio di calcio.

C’è un processo però molto più sottile messo in pratica da Soderbergh nella realizzazione del film. Vi è un certo rispetto infatti di alcuni tipici elementi di un ben preciso genere cinematografico: quello dell’ascesa e caduta di un criminale. Se ci fate caso noterete più e più elementi in comune con lo Scarface di Brian DePalma. Vedi ad esempio i crolli nervosi nella seconda parte del film. Trattare in questo modo una figura come quella del Che mi sembra più che sbagliato: è disonesto. Soderbergh non esita quindi a smascherarsi nuovamente come pseudo intellettuale finto anticonvenzionale che più convenzionale non si può.

Lasciando da parte considerazioni più o meno filosofiche e stilistiche c’è qualcosa che non va nemmeno nella confezione più prettamente cinematografica del film. Anche in questo caso si nota un certo distacco tra la prima parte (l’ascesa) e la seconda (la caduta). Nella prima si assiste a un comparto scenografico ben curato e spettacolare. Soprattutto le prime battaglie nella giungla sono efficaci ed appaganti, ma anche la guerriglia casa per casa finale tiene col fiato sospeso. Rimane da chiedersi se questi intenti iper realistici che ricordano la Band of brothers o il più celebre soldato Ryan siano davvero adatti per rappresentare battaglie di natura e filosofia completamente differenti. Ma rimangono comunque gradevoli.

E’ la seconda parte a far rimanere perplessi. C’è una mancanza quasi totale di azione, elemento che non è necessariamente un male. Ma lo diventa in questo contesto. Ci si trova davanti a qualcosa di completamente soporifero, dello stesso interesse di un campeggio a tema militare nel 2009 sulle colline del Chianti. Non c’è un vero reale interesse nè in quello che succede nè in quello che si dice. Ancora: se si vuole far conoscere il Guevara uomo (ma più in generale: se si vuole veicolare un messaggio autoriale) non è obbligatorio annoiare fino alla morte, c’è modo e modo. Quello di Soderbergh in questo caso è sbagliato. Quell giusto è, ad esempio, quello scelto da Salles per i suoi diari della motocicletta: un film che in dieci qualsiasi dei suoi minuti dice molto di più su Guevara di tutte e quattro le ore di questo prodotto.

Di tutto alla fine rimane la sequenza della morte del Che, che è forse la cosa migliore del film. Mette in evidenza quello che sarebbe dovuto essere la spina dorsale del film, uno stile che invece troppo spesso viene accantonato dal regista. E che comunque testimonia il buon lavoro di ricostruzione e di riprese svolto. Non è quindi tutto da buttare e molti forse possono apprezzare comunque questo film ben impacchettato. A patto che abbiano la pazienza di resistere per tutte e quattro le ore. E che siano dotate, come il sottoscritto, di una riduzione sul biglietto, perchè torno a ripetere che scelte produttive del genere (dividere in due il film e far pagare due volte il biglietto) sono niente più e niente meno che oscene.

2 / 5

Saluti,

Michele

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