Film

Frost/Nixon

David Frost, presentatore inglese di talk show, contro Richard Nixon, inedito presidente dimissionario degli Stati Uniti a seguito di uno dei più clamorosi casi di abuso di potere. Questo è in due parole quello che viene presentato nel film. Un duello, come il sagace sottotitolo italiano rende evidente, consumato di fronte a delle indiscrete telecamere. Un’interivsta in esclusiva e mai più concessa dalla figura più importante tra le pagine nere della democrazia moderna.

Con questo film di Ron Howard decide di prendersi una pausa dalle pagliacciate danbrownesche. E alla fine il risultato di questa pausa è forse uno dei suoi migliori film. Tutta l’impostazione, sia della storia originale che della sceneggiatura da essa tratta, è basata sulla figura dei duellanti. E il buon Richie Cunningham decide di fare una mossa, forse scontata, ma che dà il giusto respiro al film. Ovvero girare una vera e propria pellicola con tutti gli stilemi e i clichè di una storia di puglilato à la Rocky. Ci sono gli allenamenti, le scaramucce tra i pugili, la divisione in round, il protagonista che incassa fino quasi a cedere e infine ribatte. Si diverte anche a motrarci Nixon mentre la mattina si allena proprio in tuta da ginnastica e con il suo accompagnamento musicale preferito. Manca giusto solo il pugno lanciato in aria.

Il fatto di affidarsi a una mossa abbastanza facile concede a Ron Howard una certa tranquillità sul versante tecnico. Su tutta la durata regna una buona sobrietà stilistica, senza colpi di classe inutili o cadute di stile. La telecamera è abile nel muoversi e regala un buon assortimento di campi e controcampi durante le scaramucce iniziali. Poi, quando le cose si fanno serie, è tutto un fiorire di compatti primissimi piani su Langella. E la sceneggiatura si lascia scappare una toccante considerazione su quanto potere risieda in questo meraviglioso strumento che permette di catturare la realtà. Un piccolo momento di delicatezza e classe che difficilmente mi sarei aspettato dal riccioluto rosso di Happy days.

Ci sono però anche le note dolenti. Prima di tutto mi viene in mente l’andamento altalenante e goffo del pathos della storia. I fatti che scorrono sullo schermo rischiano di passare troppo per “normali”, per poco interessanti. Lo scontro di pugilato infatti rischia di apparire troppo spesso un semplice scambio di buffetti amichevoli che si sa già come andrà a finire. Lo stesso mostrarsi impreparato di Frost che viene corretto con qualcosa che dovrebbe sembrare epico (anche se la “ricerca decisiva” è ampiamente telefonata) è piuttosto falso e ingenuo. Non posso saperlo di per certo dato che non ho visto le interviste, ma la trappola di Frost era di certo preparata con cura e un film non può renderla invece frutto di un colpo di scena incredibile arrivato quasi per caso. Così come non riesce a caricare di pathos le interviste come lo scontro finale per la condanna o la riabilitazione di Nixon: la sua figura era già fin troppo compromessa e aveva abbondantemente passato il punto di non ritorno. La cartella che cade dovrebbe dare idea del colpo decisivo e invece rimane solo tempo per un piccolo pianto.

Anche nei personaggi c’è qualcosa che non va. Tutti gli attori sono bravi e in parte nell’interpretare ciò che gli viene dato. Sia il bravissimo Sheen (il Tony Blair di The queen) che tutti gli altri. Sam Rockwell in testa, che però risulta, non per sua colpa, piuttosto fuori luogo. Il suo personaggio vorrebbe rappresentare l’America bene, quella che voleva crocifiggere Nixon e si scandalizza quando qualcuno mette in dubbio “la più grande democrazia del mondo”. E’ quindi una sbandierata e spassionata difesa di una sostanziale ipocrisia di fondo, il porsi da soli su un gradino morale più alto di quello di tutti gli altri. Un personaggio francamente dimenticabile.

Langella merita un discorso a parte. Il suo Nixon è magistralmente interpretato e convince sotto tutti gli aspetti. Nella sua bocca vengono messi molti, efficaci, monologhi. E questa tendenza non può evitare l’accostamento con quel solo, intensissimo, monologo di Servillo nel divo di Sorrentino. E quando tale parallelismo salta fuori ci si accorge di come l’attore italiano abbia saputo scavare molto più a fondo ed esprimere con sottrazione ciò che Langella non può che aggiungere, sempre di più, sempre a valanga.

E’ proprio questo che alla fine condanna il film. Probabilmente è il miglior Ron Howard, ma la sua valutazione precipita di fronte al divo. Sorrentino ha mostrato come può essere rappresentata, con stile e personalità, la vita del potente. E Howard non ha minimanente il suo stesso occhio artistico. Si limita a riportare. Bene, ma a riportare.

3 / 5

Saluti,

Michele

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