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Interpol

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1 - 36
2 - Sbirri
3 - Overheard
4 - Miami vice

Viste le lodi sperticate in cui mi lancio quando devo trattare una variazione sull’horror o su una fantascienza, parrebbe lecito pensare che il qui presente Michele non viva tanto con la testa sulle spalle. D’altronde se questa conclusione fosse del tutto falsa io avrei scelto di fare un lavoro vero, non trovate? Comunque tutto ciò non è necessariamente corretto. Un altro genere affascinante su cui è facile posare i propri occhi e apprezzare ciò che si vede è il poliziesco. Tale genere comprende svariate declinazioni possibili, tutte di un notevole charme. Da una parte ci sono i gialli, con protagonisti detective più o meno pubblici o privati, con cui il cinema ha potuto trovare voyeuristici paralleli con l’occhio della macchina da presa. In seconda battuta c’è anche il feroce scontro tra chi sceglie la via dell’egoismo e della sete di potere e chi invece vuole dedicarsi a dargli la caccia, che sia per il bene comune o per la sua altrettanto egoistica soddisfazione. Ma sono invece i diversi punti di vista di diverse culture sul complesso rapporto che lega l’uomo all’insieme di regole della società civile e nel rapporto con l’ingiustizia che va a finire l’occhio di noi larsianici fan in questa variazione.



1 - 36

Olivier Marchal ha un’idea di cinema piuttosto ambiziosa. Sente sulle spalle il peso enorme di una tradizione francese che vede in Melville il suo esponente forse più famoso, ma è anche cosciente di quello che la contemporaneità sta offrendo al pubblico. E decide di cercare di soddisfare entrambe queste pulsioni. Prima di questo 36 si può dire che il suo cinema sia stato un fallimento, nel senso che non è riuscito a colpire il grande pubblico. Con la sfida tra Depardieu e Auteuil invece trova il ritmo giusto per esplodere.
Il cocktail è fondamentalmente una specie di mistura tra The heat e Frank Costello, con spruzzate di originalità di tanto in tanto. Si può dire che il risultato sia piacevole alla vista, molto più, ad esempio, del successivo L’ultima missione. Non riesce però a raggiungere le vette che gli permetterebbero di sfondare la barriera del solo intrattenimento. Questo perché Marchal si ferma a un lato più superficiale del raffronto tra la forza della personalità individuale e del bene comune. Porta sullo schermo una sfida tra due poliziotti nell’intendere il proprio lavoro e la propria missione. Ma questo scontro fallisce nel diventare critico, sia nei confronti della loro storia personale che della nostra.
Mann con The heat, e successivamente anche con il bel Nemico pubblico, va molto oltre. Va ad analizzare il complesso rapporto che sta tra il criminale e il poliziotto. Nella declinazione che può essere banalizzata con il famoso concetto: “Senza l’oscurità non esiste la luce”. Ovviamente la macchina da presa di Mann sa arrivare molto più in profondo di questa facciata. Marchal, invece, non lo fa.

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Voto (3/5):


2 - Sbirri

C’è un limite di fronte al quale un progetto cinematografico dovrebbe fermarsi. Questo limite è rappresentato da quanto stupido una produzione crede che sia il suo pubblico. Purtroppo non tutti sono in grado di fare questa semplicissima inferenza e la prova vivente lo è questo Sbirri. Un progetto nato ad uso e consumo di un Bova che sta invecchiando, che ha sempre e saputo fare un ruolo solo e che non è mai uscito dal tunnel dei vari Ultimo o Palemo-Milano e viceversa, non so mai quale dei due è l’originale.

Vederlo agitarsi come un ossesso tarantolato di fonte a una finta ripresa documentaristica non aiuta, affatto. Bova è l’unico elemento dichiarato di fiction in quello che il regista vorrebbe rappresentare il vero. Purtroppo in Sbirri c’è un tragico capovolgimento del discorso metanarrativo del film. Bova assurge quindi a unico elemento vero del film, perché non è in grado di interpretare altro che se stesso.
Rimane desolante invece il suo sfondo. La “realtà” di Burchielli è all’atto pratico completamente finta e farsesca. Gli sbirri del film fanno finta di svolgere il loro lavoro di ogni giorno per le strade con telecamere nascoste. In realtà è palese la recita, volta a mascherare da cinema-verità una realtà che non conosciamo e di certo non comprendiamo affatto meglio dopo la visione del film. E allora tanto vale l’inutile docu-Tarantinismo di Polvere. Un’inutile e patetico spot da pubblicità progresso a cui non abbocca nessuno, nonostante quanto possano credere gli sbirri coinvolti nel progetto.

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Voto (1/5):


3 - Overheard

Il poliziesco di Hong Kong è stato capace di rappresentare per molti anni una validissima alternativa ad alto livello di qualità registica e di intrattenimento al mainstream occidentale. Negli ultimi anni è stato anche testimone di un magistrale ciclone di cambiamento, in grado di rinnovare sotto svariati aspetti la sua poetica. Tale cambiamento è stato gestito da mani sapienti quali quelle di Johnnie To (Exiled), Derek Yee (Protégé) e molti altri. Come l’Alan Mak che sta dietro al trilogia di Infernal Affairs e anche dietro questo Overheard.
Tutto il gioco che scatena la trama sta nelle intercettazioni audio e video. Il gruppo di poliziotti che indaga sui finanzieri è sottoposto a una mole incredibile di dati, tutti filtrati e viziati dall’osservare (ascoltare) da un punto di vista ben preciso e uno solo. Proprio come la nostra quotidianità da bersagli del mass media di turno (che sia la televisione o il web 2.0 poco importa).
Tale parzialità non può che far nascere sospetti, errori di valutazione e disonestà. Se in Infernal Affairs il motore che muoveva la vicenda era sferico e imprimeva un modo di opposta attrazione tra i sue due poli (l’onestà e la disonestà), qui c’è solo spazio per una graduale discesa all’inferno. Che parte dal bisogno di soldi per un figlio malato, al rubare la donna a un amico, fino all’incredibile, mozzafiato e splendidamente tragico tuffo finale.

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Voto (4/5):


4 - Miami vice

Ciò che rende esplosivo Miami vice nell’ambito del poliziesco è come tratta la figura principale del genere: il poliziotto. Non sarà sfuggito a molti il dettaglio che le imprese di Crockett e Tubbs in questo film mancano di una componente fondamentale. Uno dei crismi e dei dogmi inviolabili nella scrittura di una sceneggiatura. I personaggi in Miami vice non vengono introdotti.
L’incipit non ha nessun ritmo particolare, non crea un preambolo, nulla. Sembra quasi scritto da un dilettante. Nelle mani di Mann, tuttavia, questo è voluto e diventa creta da plasmare. Perché nella sua operazione vuole cercare di modernizzare il poliziesco. Di renderlo più reale e attinente a quello che ci sta accadendo attorno. E la prima operazione da fare è spazzare via l’aura di eroismo o di mitologia che sta attorno ai poliziotti da cinema.
Si può quasi dire che l’intento di Miami vice possa essere addirittura satirico e sottilmente ironico. Non necessariamente nell’accezione ridanciana del termine. Ma nel decostruire la mitologia poliziottesca (compito questo che rimane incredibilmente simile ad alcune delle scenette di Palle in canna, il film di Mann crea qualcosa di più. Un coinvolgimento e un realismo senza pari, sottolineato dal solito magistrale uso del futuro delle tecniche di ripresa.

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Voto (4/5):




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