Variazioni

Ho visto la luce!

OstacoliFilm

1 - Wristcutters
2 - After life
3 - Izo
4 - Inferno

Una variazione che ha il sapore dell’ultima spiaggia per Five Obstructions. Spiaggia ovviamente non intesa in senso vacanziero del termine (per quanto di questi tempi…). Sarà la crisi, sarà il sempre minor tempo libero che questo mondo ci dà, sarà che l’Euro scende sul dollaro e quindi ogni settimana la spesa mi costa di più, ma su questi lidi non spira affatto un’aria da ottimisti. A dirla tutta si spira e basta, ecco. Anche il mio computer è spirato. Per cui la variazione questa volta è dedicata nientemeno che all’oltretomba. Ebbene sì: è l’inguaribile ottimismo di una persona che quando vede la luce in fondo al tunnel pensa che sia un tir in diretta rotta di collisione contro la sua fronte. Però per non essere prevedibili come al solito e fare una rassegna di inferni e torture (spero che Damiano apprezzerà questo sdoganamento dall’horror) vogliamo fuggire da un oltretomba fatto solo per spaventare. Largo dunque alle rivisitazioni di genere della vita dopo la morte.



1 - Wristcutters

“Questo misero modo tegnon l’anime triste di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”. Se di limbo vogliamo parlare, la citazione più autorevole che può essere usata è quella di Dante in persona (anche se questo pezzo è scritto per l’Antinferno, ma pazienza). E’ così che può essere etichettato questo Wristcutters: non c’è una sola buona ragione per condannarlo, ma si faticano a trovare anche ragioni per promuoverlo.
E dire che l’idea che fa muovere tutta la vicenda non è affatto male. Di più: è intrigante. Un luogo nell’al di là in cui finiscono tutti coloro che hanno commesso suicidio. Un luogo dove è vietato sorridere che fa da sfondo a un on the road movie pieno di elementi interessanti. C’è la ricerca di “quelli che comandano”, c’è un buco nero sotto il posto del passeggero che ingloba tutto, c’è perfino un sornione Tom Waits.
C’è una morale forse un po’ troppo preconfezionata sui miracoli, e sullo sforzarsi di ottenere ciò che deve venire per caso (e quindi fallire). C’è anche una certa dose di ironia, sebbene questa non riesca mai a far diventare alcuno scambio di battute degno di essere ricordato. Forse è questo il difetto peggiore del film: una tecnica di ripresa assolutamente televisiva e attori decisamente non in grado di creare empatia (da telenovela piemontese, se cogliete la citazione). Peccato, perché dalle premesse iniziali questo on the road nell’al di là aveva le carte in regola per sorprendere.

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Voto (2/5):


2 - After life

Koreeda immagina il suo al di là con la tipica dolcezza amara che ha caratterizzato parte della sua filmografia (penso prima di tutto a Nobody knows). La dolcezza è data dall’immagine che vuole creare. Parte dall’idea che, dopo la morte, l’anima di una persona possa spendere una settimana in un centro specializzato in cui alcuni funzionari la aiutano a ricostruire un ricordo. Tale ricordo sarà l’unico pegno che l’anima potrà conservare della propria vita da lì fino all’eternità.

Proprio come le anime del film, anche Koreeda non è interessato a un intreccio o a una storia, ma al creare un’immagine. Una foto che rappresenti un film e una carriera per l’eternità. E ci riesce a pieno, descrivendo con un’incredibile leggiadria una vera e propria macchina che ricostruisce i sogni. E’ delicato, Koreeda, nel descrivere la dolcezza del più bel ricordo di una vita assieme all’amarezza dovuta alla consapevolezza di perdere tutto il resto (una montagna di videocassette che racchiudono un’intera vita: un’immagine che vale più di mille parole).
C’è un altro retrogusto amaro in After life. Ed è la visione della costruzione del ricordo da parte di una specie di corporazione dell’al di là. Lontano dal renderla una possibile satira con un’industria moderna, il tutto assume invece il punto di vista non delle anime che ricostruiscono il proprio sogno, ma dei burocrati per il quale questi ricordi sono pratiche di routine. Ci mettono impegno e partecipazione. E’ una situazione vissuta con sofferenza e pietà. Ma non si può negare che essi passino da un fascicolo all’altro settimana dopo settimana ricostruendo in serie pezzi di presunta unicità.

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Voto (5/5):


3 - Izo

L’al di là disegnato da Miike rappresenta qualcosa in cui l’unione tra la filosofia orientale del karma e Nietzsche trovano un punto paradigmatico. Per Miike dopo la morte c’è un eterno ricomporsi delle vicende della vita, delle sue caratteristiche tipiche che l’hanno resa quello che era. E questo non significa necessariamente una cosa buona. Questo Izo infatti ne è la conferma: una strada sanguinaria e piena di violenza.
Izo non è un horror, anche se abbonda di sangue e di particolari macabri. E’ un viaggio di una profondità inaspettata (e ostica) all’interno della psiche di una macchina da guerra che ha dichiarato il suo odio verso tutto e tutti: che siano uomini, angeli o demoni questo odio si comporta in maniera assai democratica. Che cosa distingue il limbo di Izo da un inferno di sangue e violenza (dove è lui stesso il primo carnefice e vittima)?

Un aspetto fondamentale è la possibilità di salvezza. Miike ci vuole suggerire che perfino una catena che appare immutabile ed eterna (in quanto senza inizio e senza fine) può essere spezzata. Ci sono momenti in cui Izo placa la sua sete di sangue che lo dilania dall’interno e cerca di ricomporsi con la propria umanità. Che riesca nel suo intento o fallisca sia lo spettatore a scoprirlo. Ma è il fatto che questa scelta ci sia sembra essere la cosa importante per Miike. Speranza nel più oscuro dei suoi film? Una trappola? O forse solo ingenuità?

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Voto (3/5):


4 - Inferno

Un kolossal prodotto e girato in Italia che mette assieme l’opera di Dante con una voglia di spettacolo e regia, assieme al comparto di effetti speciali, in pari con lo stato dell’arte contemporaneo alle riprese? A dirlo oggi suonerebbe assai strano. Di più: assolutamente impossibile, dato che il miglior tentativo che si è visto negli ultimi anni in tal senso è stato Barbarossa, il che è tutto dire. Eppure questo Inferno lo è. Anche se è stato girato nel 1911.
All’epoca, evidentemente, c’era qualcuno che aveva voglia di osare anche nella cinematografia dell’italico suolo. Difficile dunque riuscire a recensire tale film secondo l’occhio di una critica moderna. Di sicuro il bianco e nero viene utilizzato in maniera assolutamente consapevole e rifugge il più possibile le logiche teatrali che all’epoca ancora dominavano la scena. Non siamo a livello dell’uomo che sapeva troppo di Hitchcock ma, a parte che quel film è di vent’anni dopo, vi siamo ragionevolmente vicini.
Il bianco e nero risalta anche la costruzione dell’inferno dantesco secondo una note di stile scelta ben esplicita da parte di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan (i registi). L’immagine viene costruita per ricalcare la potenza visiva delle incisioni di Gustav Doré: è ben più che un omaggio, è una traduzione in immagini in movimento.

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Voto (4/5):




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