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Ma il prossimo anno si va a Venezia

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1 - L'albero della vita
2 - Hulk
3 - Intervista col vampiro
4 - Rebels of the Neon God

Venezia è uno dei leitmotiv di Five Obstructions. Era l’obiettivo principale dell’intero sito, che ha animato e mosso la redazione (io e Damiano) in ogni suo passo (non ridete, non sto scherzando). “Ma il prossimo anno si va a Venezia” ci ripetiamo sempre. Ormai questa, un tempo fulgida e gonfia di speranza, luce negli occhi sta malinconicamente per svanire. Questa variazione, dedicata al festival del cinema più importante della penisola, vuole celebrare le origini di Five Obstructions. Vuole anche essere una pezza contro il silenzio attraverso cui passano praticamente tutti i momenti importanti dell’anno cinematografico (imbarazzante la mancanza di edizioni speciali per Cannes e Berlino, Roma manco a parlarne, ma pure il Sundance). Come celebrare dunque le intenzioni bellicose per il prossimo anno veneziano? Prendiamo autori che hanno vinto il Leone d’oro e analizziamo il film che hanno realizzato immediatamente prima di trionfare a Venezia. Che è anche l’augurio per Five Obstructions: questo ultimo anno di aggiornamenti prima della trionfale marcia mia e di Damiano sul red carpet (o un arrivo in motoscafo planando da un elicottero, devo ancora decidere).



1 - L'albero della vita

La filmografia di Darren Aronofsky è ben difficile da inquadrare con poche semplici linee di testo. Ogni film pare essere completamente diverso dal precedente per tematiche, stile, approccio alla storia e ai suoi personaggi. E’ quasi impossibile dunque trovare un parallelismo tra questo film con Hugh Jackman e il successivo The wrestler.Però un minimo di parallelismo e di temi in nuce del successivo Leone d’oro si riescono a trovare.
L’albero della vita è, fin dal titolo, una ricerca con caratteri epici, fantascientifici e filosofici della natura umana. Con l’intento di scoprirne falle e correggerle, con i mezzi e le capacità di cui abbiamo disponibilità. E’ un affresco gigantescamente Klimtiano nella sua potenza visiva di un bacio immortale. Freschi di visione si rimane estasiati dalla tecnica che Aronofsky sa mettere in ogni inquadratura e da un uso maturo dell’effetto speciale come non mai.
E, non appena visto The wrestler, si capisce finalmente a pieno che cosa non andava in questo albero della vita. The wrestler è ancora volontà di potenza, desiderio di immortalità o quantomeno una seconda giovinezza. Magari più introiettata verso il sé che non nel precedente film di Aronofsky. Ma sa essere più sottile, più implicito, suggerisce meglio questa volta per sottrazione e non per aggiunta. L’albero della vita ha un’infantile voglia di stupire, proprio come è infantile la voglia di immortalità. Pecca di immaturità e di voler rendere le cose troppo facili ed esplicite. Questo ne mina i risultati finali, pur facendoli rimanere di livello eccellente (ma non da Leone d’oro).

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Voto (4/5):


2 - Hulk

Fino a poco tempo fa il miglior film tratto da un fumetto della storia del cinema. Superato da Watchmen (e queste sono già due affermazioni belle pesanti che mi rinfacceranno), il film di Ang Lee ha rappresentato per moltissimi anni una vetta a cui pochi sono riusciti ad ambire. E ha dimostrato, ma questo si sapeva già da tempi di Burton e Raimi, che il cinefumetto è roba seria, in grado di dare a veri e propri Autori un palcoscenico di tutto rispetto (quasi al livello della tragedia greca, e non sto scherzando).

E di tragedia greca si parla, in questo Hulk. Perché anche in questo caso c’è lo scontro fortissimo tra due volontà di potenza. Ma soprattutto un duello edipico che ha dell’epico (mi si perdoni l’assonanza). Tutto questo potrebbe far generare sbadigli: “Ma come? Vogliamo un ‘Hulk spacca!’ e tu ci parli di tragedie greche e conflitti Freudiani?”. La cosa assolutamente fantastica di Lee è che questo è un film in cui Hulk spacca. E spacca tutto alla grande (ricordo gli aneddoti di Lee che faceva vedere in prima persona ad Eric Bana come sfasciare un carro armato: impagabile!). Ang Lee usa lo spazio dello schermo come se fosse la pagina di un fumetto, con ritmi, split screen e chine saturate da cardiopalma.
E se nel successivo Brokeback mountain rinuncia alla spettacolarizzazione per tornare a temi a lui cari come Mangiare bere uomo donna non gli se ne faccia una colpa. Ma alla storia dei cowboy gay, che è geniale riadattamento delle fantasie da zitella di qualcuna, FiveObstructions continua a preferire il gigante verde che spacca tutto. Spero che mi perdoniate.

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Voto (5/5):


3 - Intervista col vampiro

Intervista col vampiro è uno di quei classici film cult più o meno underground che sono stati osannati da una non meglio precisata generazione dei primi anni ’90. E si che gli anni ’90 sono stati un periodo sventurato del cattivo gusto (non tanto quanto negli ’80, ma almeno lì la cifra stilistica era chiaramente riconoscibile e un po’ più onesta, per quanto innegabilmente di peggior fattura). Non è che questo debba condannare necessariamente il film, ma francamente non trovo molti elementi della mano di Neil Jordan a cui attaccarmi.
Non mi riferisco tanto al successivo Michael Collins, premiato più per l’attualità al momento dell’uscita che per meriti cinematografici, immagino, ma per film che una volta liberati dalla patina “novantina” risultano essere inni alla fantasia visiva e alla finezza con la macchina da presa (penso all’ottimo Breakfast on Pluto). Discorso che non vale per il film interpretato da Pitt e Cruise. Che, sorvolando su cosa ne pensi la Rice di Cruise (far interpretare Lestat da Cruise è come far fare Rhett Butler a Danny De Vito, queste più o meno le sue parole), poco riesce a fare al di fuori dell’ombra del romanzo originale.

E’ un adattamento troppo piegato alle logiche del romanzo per riuscire a dire di qualcosa di nuovo come opera artistica indipendente. Non riesce ad essere un vero riadattamento, ma solo un tributo al divismo Cruise-Pitt e al passaggio di testimone tra i due. Nessuno credo si sarebbe aspettato un Leone d’oro dopo un film del genere, nemmeno Jordan stesso.

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Voto (2/5):


4 - Rebels of the Neon God

Questo è il primo vero lungometraggio con cui comincia la carriera di Ming-liang Tsai e l’epopea del sempre presente nei suoi film Hsiao-Kang (interpretato costantemente da Kang-sheng Lee al punto da rendere assai difficile scindere uno qualsiasi degli elementi di questo triangolo). E, per essere un inizio che avrebbe portato a un Leone d’oro, le tinte di Rebels of the Neon God risultano essere cupissime e quasi senza alcuna speranza per il futuro.
Il titolo di per sé dice già tutto quello che c’è da dire: i ribelli del Dio dell’insegna al neon, giovani che girano in scooter per una Taipei illuminatissima ma buia dentro, senza una vera ragione per andare avanti. Ragione che viene trovata da un mix di sentimenti nei confronti di Ah Tze e la sciocca vendetta per un ancora più sciocco sgarro ai danni del taxi del padre di Hsiao-Kang.
Un film che vive di episodi e tragicità molto più dei seguenti film di Ming-liang Tsai, che puntano maggiornamente sul surrealismo e la composizione della sequenza perfetta. Anche i tempi di regia sono decisamente differenti, più incalzanti e meno dilatati, rendendo questo film forse non un perfetto Ming-liang Tsai al 100%. Il che non si traduce necessariamente in un difetto (è più scorrevole e adatto a un pubblico non elitario), ma ne fa perdere alcune delle caratteristiche più gustose (l’ironia surreale del Gusto dell’anguria, o gli splendidi e potentissimi affreschi postmoderni di The Hole e Goodbye Dragon Inn).

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Voto (3/5):




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